di Lina Furfao

…Ripartiamo da dove avevamo lasciato: l’importanza del rapporto educatore-educando, realizzarlo e non demolirlo. Tutto deve contribuire senza dimenticare che i finanziamenti pubblici non possono prescindere dal corretto modo di fare politica nei confronti della scuola. Quando il legislatore si siede per decidere nel settore di sua competenza, prima di muovere finanziamenti dovrebbe chiedersi: ma la scuola è ok o gli addetti hanno necessità “altre”?  Le classi sono ancora pollaio? Se nelle classi non c’è lo spazio vitale non vi sarà armonia e concentrazione. Alunni di alti e robusti che lavorano al banchetto di classe prima non potranno mai concentrarsi nell’operare e l’educatore soffre quanto loro nel vederli sacrificati. Inoltre se i risultati sono carenti spesso è anche perché l’insegnante deve insegnare/spiegare (come si disegna un triangolo isoscele, un cerchio, il calcolo della circonferenza…) a troppi bambini contemporaneamente. Forse il legislatore, impegnato nel tritacarne della politica, dimentica che ogni bambino ha le sue difficoltà: ventidue alunni sono ventidue mondi diversi!  Se vi è ingerenza dei genitori la complessità aumenta in modo esponenziale. L’esperienza mi dice che il numero (anche compresi diversamente abili) di sedici alunni è quello massimo; ciò per portare in classe quinta in modo adeguato un gruppo di pargoli; ciascuno con il massimo della resa possibile, con quanto più poteva acquisire in quel tempo/spazio, con quei compagni, quell’insegnante, in quella scuola… In altre parole il piccolo gruppo permette al docente di creare un ambiente che risponde meglio ai differenti bisogni educativi e di realizzare – attraverso strategie educative e didattiche quanto è necessario allo sviluppo delle potenzialità di ciascuno nel rispetto del diritto anche del sano senso critico, dell’autostima, di una migliore qualità di vita nell’aula e fuori di essa. Nessun passaggio educativo può prescindere da un’interazione intensiva docente- discente e la tecnologia non può distrarsi da questo fondamentale “rapporto umano”. L’ingrediente principale è la fiducia piena tra educatore ed educando, la maturità dell’adulto, la sua umiltà e autorevolezza, la coscienza che “i saperi” comportano costruzione del sé e traslazione, relazione e partecipazione attiva, sono ingredienti che non possono mancare nella ricetta della crescita sociale. Con la nostra persona e personalità, tutti e ognuno occupiamo in qualche modo, un posto nel piccolo mondo nel quale viviamo e interagiamo: ci siamo mai chiesti se in questo ambiente più o meno limitato qualche volta siamo stati educatori? Quanti bambini, adolescenti, giovani ci hanno ascoltato con attenzione mentre parlavamo? Ecco, in quel momento siamo stati educatori, anche se non abbiamo riflettuto sulla grande, enorme responsabilità che avevamo nel ricoprire quel ruolo. Per usare altre parole: giovani in cerca di identità ci avranno anche soltanto guardato, scrutato, ammirato… e noi inconsapevolmente siamo stati educatori. I giovani, aperti alla crescita, vedono spesso nel comportamento dell’interlocutore adulto un punto di riferimento, vuoi per il carisma, la disinvoltura o la simpatia, vuoi per la fonte di risorse che vi avvertono, per l’autonomia che auspicano, per “i saperi” o passioni che percepiscono: là si veste un ruolo pregevole. Insomma anche noi, se non lo siamo già stati, siamo potenziali “miti” per bambini e adolescenti e a tal proposito siamo responsabili della nostra educazione e di quella altrui. Tutti siamo coinvolti. Coltivare la crescita della persona integrale, sembra essere un po’ fuori moda, in quanto l’immagine e la cura della stessa occupa un posto rilevante nella società. In un Istituto scolastico l’errore di lavorare a favore della quantità (più alunni possibile nelle classi) a discapito della qualità dell’insegnamento è tipico degli ultimi decenni. E non solo. La distrazione dell’apparire spesso è a discapito della maturazione armonica che comprende il rispetto di regole e valori morali, ovvero i presupposti per il sano inserimento presente e futuro. La responsabilità educativa dunque ha dimensioni sociali, oggi più che mai: le nuove generazioni genitoriali si ritrovano sprovviste di esperienza edificante perché catapultate nella frenesia quotidiana degli ultimi anni. Il tavolo silenzioso al ristorante, in attesa della pizza dove la comunicazione virtuale ha la priorità su quella diretta, ne è un esempio. Il ventennio scorso non ha lasciato spazio adeguato alla crescita dell’educatore materno/paterno distratto dalle opportunità bombardanti, insostenibili, che hanno richiesto corse fuorvianti dalla parte umana della persona per mantenere il passo con la società consumistica, tecnologica, digitale, anche per dare condizioni favorevoli ai figli stessi. Come compensare passaggi saltati? Come recuperare distanze /tempi non offerti nei momenti dell’adolescenza? Lasciamo spazio al dubbio e facciamoci soccorrere, assistere. Se c’è la consapevolezza il tempo rallenta con noi, siamo noi a dover gestire il cammino, non la folata di vento: guardiamoci intorno e respiriamo, soffermiamoci un attimo per coltivare l’umanità della vita. Riallacciamo legami che avevamo, per distrazione, slacciato, raffreddato. I momenti intimi con i nonni, gli zii, i cugini, spesso rappresentano una trasmissione di messaggi che, inconsciamente sottovalutiamo, ma indispensabili per la formazione di identità. Vivere e creare presupposti a vivere, certo non è semplice: se (anziché la collaborazione e l’umiltà per favorire un’apertura ai legami) affiora l’orgoglio si creano danni irreparabili per l’inevitabile disorientamento infantile e adolescenziale; prima di tutto l’essere umano! È lui la priorità di fronte alla frenesia. L’individualismo incombe a sfavore della comunità, deve essere la consapevolezza e gli affetti a permetterci di guardare in faccia chi ci sta accanto, qualunque sia la sua età e il suo ruolo. L’essere umano è educando che assorbe, che naturalmente acquisisce e modella una identità nuova e unica, quell’essere vivo grazie alle relazioni, le quali a loro volta per realizzarsi necessitano di crescita, positività, disponibilità a ricevere e dare nel contempo. L’educatore di professione, nella società figlia del consumismo, permissivismo, della propaganda distorta si ritrova con un carico di responsabilità o meglio di lavoro ancora maggiore. Prima di passare ai contenuti, agli strumenti didattici e alle frazioni deve fare opera di decondizionamento per riportare nel fanciullo la serenità educazionale, autostima, autonomia, nelle quali intravedere riferimenti certi, a lui più prossimi, e valori come la famiglia, l’aggregazione amicale sana, quale punto focale per coltivare sane ambizioni che lo guideranno a trovare la propria identità. Nessun educatore, per quanto maturo sia, può portare da solo il suo carico, né famiglia, né maestro, ben venga la collaborazione tra genitori, associazioni, educatori di professione… Quando un genitore contraddice un ente educativo (la scuola in primis) si crea una voragine, un disorientamento incolmabile poiché il figlio è incapace di razionalizzare su quanto i suoi educatori (genitori e scuola/maestro) non riescono a mettersi d’accordo. Riguardo la motivazione di chi educa, in particolar modo quella dell’insegnante, negli ultimi decenni ha percorso una strada a ritroso da quando, come famiglie, abbiamo frantumato il rapporto docente-discente, a discapito delle regole, prendendo le difese di chi viene richiamato, anziché portare avanti un’unica voce, per rafforzare l’obiettivo comune, quello dell’educazione alla vita.

 

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