di Patrizia Gradito e Nicola Viceconti

Urlando a squarciagola, Tony, Riccardo ed Emanuele si misero a correre all’impazzata nello strenuo tentativo di sgominare qualcosa di terrificante che, nella casa della signora Vanni, si era scolpito sui loro volti. La corsa scomposta aveva animato la ghiaia del viottolo, scuotendo all’improvviso la quiete di quel giardino dimenticato e senza fiori. Spintonandosi l’un l’altro, scappavano veloci come volpi inseguite da cani da caccia, lasciandosi dietro un polverone. Fu così che piantarono in asso ciò che non avrebbero mai voluto incontrare. O così speravano. Il muro di cinta dell’antica villa prometteva, al di là, una via di fuga certa che riuscirono ad assicurarsi solidali, costruendo uno scalino con le braccia. Con un balzo temerario, spiccato da un muro alto almeno tre metri, la spuntarono. In un freddo  pomeriggio di gennaio, catapultati finalmente nel mondo reale, i ragazzi cominciarono a recuperare la normalità accantonata per un lasso di tempo troppo lungo mentre erano all’interno di quella misteriosa dimora. Scossi da uno sbuffo di tramontana, misero da parte gli sguardi muti dettati dalla paura e gradualmente diedero di nuovo spazio all’euforia, accompagnando l’esperienza appena vissuta con risatine e poderose pacche sulle spalle, a sugello della loro invincibile complicità. Forse era quello il prezzo da pagare per aver osato forzare la soglia del mistero. Senza capire da chi e da cosa, anche quella volta erano riusciti a scamparla. Tutti, tranne uno: Leo. L’esito di quella rapida ricognizione non li sorprese, l’amico era rimasto indietro, per l’ennesima volta, im- pelagato nel recupero delle chiavi che aveva dimenticato nella sala da pranzo, la stanza in fondo al corridoio. E nessuno si era preoccupato di aspettarlo. Un’alzata di spalle fu la loro unica reazione. Non era la prima volta che Leo finiva per restare solo in certe circostanze. Era sempre il più distratto anche se, il più delle volte, era proprio il più acuto, capace di cogliere ciò che sfuggiva agli altri. Una genialità spesso  espressa in modo maldestro. In poco tempo i tre, visibilmente eccitati, raggiunsero il resto della comitiva radunata sul muretto in piazza, come d’abitudine. Quella volta avevano tanto da raccontare. Gli amici pendevano dalle loro labbra, allibiti. La mitologia delle loro sfide era sempre ricca di aneddoti e pericoli e tutti fremevano per conoscere le loro ultime emo- zionanti avventure. Riuscire a stabilire un contatto con lo spettro di via Pignatelli non era stata solo un’impresa trasgressiva. Dalle voci che giravano a Ciampino, l’entità aleggiava indisturbata nei meandri del vecchio collegio femminile del Sacro Cuore, bombardato dagli alleati sul finire della Seconda guerra mondiale. Si trattava di una struttura imponente, contigua alla chiesa che dominava la piazza nel centro della città. Costituita da diverse aree ormai fatiscenti e pericolanti, esibiva paurosi fine- stroni dai vetri rotti, spalancati come fauci aperte sugli altissimi soffitti. Nel tempo, no- nostante i divieti, lo spazio aveva assunto vari usi: da rifugio per sfollati fino agli anni ’70, si era trasformato poi in un posto appartato per coppie temerarie, fino a diventare un luogo d’interesse per giovani fotografi in cerca di scatti originali. Tra le macerie del seminterrato, qualcuno aveva testimoniato la presenza di un gigantesco affresco raffigurante l’ultima cena, di raffinati oggetti d’epoca e persino di un archivio di documenti di natura religiosa. L’ex collegio, succube ormai della gramigna e delle ortiche, subiva l’incuria e presentava diverse ferite, come il tetto, completamente rovinato dalla prepotenza delle intemperie. I rampicanti avevano colonizzato l’intera facciata, rispar- miando solo porzioni di mura ormai scrostate del tempo. I balconi scheletrici si affacciavano tristemente muti. Nessuno osava sfidare quell’intrico minaccioso, abbarbicato tutto in- torno alla via d’ingresso. Eppure, tra i ciampinesi più anziani, qualcuno conservava nel ricordo le glorie di quel luogo. Come le partitelle nel campo di calcio polveroso con quel professore magro magro, strano ma gentile, geniale e lungimirante che ogni mattina veniva da Roma, per insegnare in una scuola al civico 21 della stessa via. Il professore scrittore che, dopo i tiri in porta, si soffermava a leggere ai suoi studenti racconti, recitava Ungaretti, Shakespeare e l’antologia di Spoon river. Già  in altre occasioni, i quattro amici si erano introdotti furtivamente in quella casa adiacente l’ex collegio, di proprietà della zia di Leo, un’anziana attrice di teatro che viveva tra l’Italia e Siviglia. Il ragazzo era riuscito a impossessarsi delle chiavi per penetrare di nascosto in quella elegante abitazione, in cerca di segreti, di cui farsi narratore al resto della comitiva. La zia, nei suoi tailleur fascianti, incarnava mondi lontani e tutte le volte che tornava dall’Andalusia, Leo era incantato dalla sua allure, dalla voce e dalle sue cose particola- ri: libri e taccuini fitti di appunti accumulati sul comodino; cosmetici profumati e cofanetti da cui traboccavano monili e fili di perle disposti sul comò. L’arredo della casa era semplice ma ricercato. Intorno a un tavolino a tre gambe, dove era poggiata un’antica lampada in stile Tiffany, con libellule e fiori, i ragazzi passavano ore. L’avevano scelto come piattaforma per l’aldilà. Il punto preciso dal quale evocare l’enigmatica entità di Via Pignatelli. Si erano organizzati alla perfezione per la missione e ogni volta che decidevano di comunicare con il soprannaturale, rispettavano una tacita sud- divisione dei compiti. Riccardo preparava il foglio con le lettere dell’alfabeto disposte in cerchio, i numeri e le caselle del sì e del no; Tony pensava alla monetina di rame e al bicchiere; Emanuele provvedeva alle candele da disporre sul davanzale delle finestre; Leo era il custode delle chiavi. Nonostante lo scrupoloso allestimento, l’incontro medianico risultava per lo più scadente. I quattro adolescenti impavidi non erano mai riusciti a mettersi in contatto con la presenza incorporea dell’ex collegio. I rari segnali, che sembrava avessero avvertito in modo confuso, erano ambigui e, come accade spesso nelle sedute spiritiche, anche a loro non parve facile capire se quello che avevano sentito fosse frutto di una semplice suggestione o se si trovassero di fronte alle tanto ricercate ma- nifestazioni esoteriche. Quella volta, invece, i segni erano stati inequivocabili. Perfino Tony, notoriamente il più coraggioso del gruppo, era rimasto impressionato. Sulla parete divisoria con l’ex edificio religioso, tutti avevano udito distintamente dei colpi, poi la musica di un violino e una chiara voce femminile proveniente dal sottoscala. Trascorsero una decina di minuti. Solo quando il livello di adrenalina diminuì, gli amici di Leo si accorsero della sua assenza. «A regà, ma quanto ce sta a mette?» domandò Riccardo «N’è che j’è è successo quarcosa?». Fu sufficiente un rapido sguardo tra i tre a far crescere il sentore dell’imponderabile. Perché il loro amico tardava ad arrivare? A quale imprevisto erano di fronte? Maturarono l’idea che, la cosa migliore da fare in quel momento, era tornare nella casa. Una volta all’interno, trovarono Leo nella sala da pranzo, accovacciato sul pavimento, intento a raccogliere pezzi di vetro sparsi ovunque. «Che cojone!» esclamò «pe’ sbrigamme so’ ‘nciampato ar filo». «E mo? Che te ‘nventi co’ tu zia?» domandò Tony mentre mostrava agli altri quello che era rimasto dell’antico lume colorato. «Manco a di’ che se po’ riaggiustà!» aggiunse poi con aria ras- segnata. Emanuele portò le mani al volto per lo stupore e rimase così, come una statua, per un po’. A Riccardo scappò una risatina nervosa, che però dovette soffocare prontamente per non agitare ancora di più gli animi. «Mi’ zia torna domani e ‘sta cosa nun me la perdonerà mai!» disse Leo visibilmente impensierito. E  non aveva tutti i torti. L’intrusione in quella casa, all’insaputa persino dei suoi genitori, esigeva una valida motivazione che lui non aveva. Di fronte alla preoccupazione di Leo, il gruppo  restò interdetto, senza però tradire l’unione consolidata: «Nun te sta a preoccupà, quarcosa s’enventamo» disse Emanuele cercando di incoraggiarlo.

La speranza di vedere la lampada riparata si accese per un istante quando Leo, frugando nei cassetti dello scrittorio situato in fondo al corridoio, trovò un tubetto di Attak. «Sii, forse co’ questa svortamo» esultò facendo segno gli amici di accompagnarlo nell’altra stanza. Per quattro volte tentarono di incollare i singoli pezzi di vetro colorato, ma la complessità dell’operazione apparve chiara dal principio. Il puzzle del paralume era impossibile da ricostruire. «E se la portamo ar bangladino? Magari  lui  ce  pò  aiutà»  suggerì  Emanuele.

«Ma chi, quello che se spaccia pe’ vetraio?» gli fece eco Riccardo con espressione incredula. Sebbene l’idea di Emanuele non fosse delle più convincenti, rappresentava l’unico tentativo realizzabile nel poco tempo che era rimasto a disposizione.   Leo   accettò   senza   esitazione.

«Annamoce subbito, prima che chiude!»

Quando Leo fece per tornare in sala da pranzo per raccogliere quello che era rimasto della lampada, fu accolto da un bagliore azzurro e rosso che riverberava sulla parete del corridoio. Al principio credette al riflesso dei fari di un’auto in lontananza, di passaggio sulla strada poi, considerando la persistenza di quella luce, dovette ricredersi. Avanzò cercando di capire l’origine di quel bagliore sempre più caldo e intenso. Dietro di lui seguivano incuriositi i suoi amici. Camminavano in fila indiana, trattenendo quasi il respiro, percependo a ogni passo la presenza di uno strano mistero. Quando entrarono nella sala da pranzo non riuscirono a contenere tutto lo stupore  di trovare sul tavolino la lampada intatta e perfettamente funzionante. Rimasero immobili, a bocca aperta. Emanuele afferrò la mano di Riccardo, il più vicino, cercando di reagire a un fenomeno impossibile da interpretare. Istin- tivamente, Tony tirò fuori dalla tasca il piccolo coltello da caccia che portava sempre con sé nelle esplorazioni con il gruppo. Fu una reazione di paura la sua, legittimata dal- l’assurdità della situazione. Era realmente convinto che qualcuno si fosse introdotto furtivamente nella villa per rimpiazzare la lampada mentre loro conversavano distrat- tamente nell’altra stanza.

«Fatte vede se c’hai coraggio!» urlò con voce piuttosto incerta, mentre brandiva goffamente il pugnale in aria. In verità anche Leo sospettò la presenza di un estraneo in casa, ma preferì non dire nulla e rimandare qualsiasi commento, tant’era lo sconcerto in quel momento. Lentamente si avvicinò al tavolino e passò una mano sul paralume. «Che stai a fa?» domandò Tony senza mai abbassare la guardia. «Sto a vede se è vera» rispose lui non riuscendo a trattenere un sospiro di sollievo. D’incanto la lampada era tornata come prima. I quattro lasciarono in fretta la villa e, con la mente intorpidita, tornarono alle rispettive famiglie, portandosi dietro l’incredibile esperienza vis- suta a cavallo tra realtà e sovrannaturale. Una sensazione complessa, assoluta, simile a quan- do ci si risveglia da un sogno e si resta per un po’ sospesi in un limbo, a rivedere le immagini che scorrono fluide. Quella notte Leo non chiu- se occhio. La scena della lampada perfetta- mente integra gli si era incastrata tra i pensieri e non gli dava scampo. Chi si era intrufolato nella casa per sostituirla con una identica? E perché? E se le cose non fossero andate così, com’era potuto accadere un simile evento?

Erano tutti interrogativi che il mattino seguente lui  stesso  rivolse  alla  zia,  di  ritorno  a   casa.

«Ecco, t’ho raccontato tutto» disse il ragazzo, togliendosi finalmente un peso dallo  stomaco: «volevamo fa ‘na seduta spiritica…». 

«E, a quanto pare, ci siete riusciti!» aggiunse lei con velata ironia. «Dev’esse entrato da dietro. Te giuro zì, che se l’acchiappo…» proseguì Leo senza soffermarsi nemmeno un istante sul commento appena ricevuto.

L’anziana donna sospirò. Poi si avvicinò alla finestra, scostò con la mano la tendina ricamata e rivolse lo sguardo in direzione dell’antico collegio. «Lei era già qui» sussurrò. «Lei chi?» domandò Leo voltandosi di scatto. «La piccola Drina. È sempre stata qui, con me». Il ragazzo restò perplesso. Non aveva mai sentito quel nome e pensò a uno scherzo.

«Te stai a ‘nventà ‘na storia come quelle de Via Pignatelli che me raccontavi da ragazzino, evve’?» domandò con aria divertita. L’anziana zia ricambiò con un tenero sorriso, poi però tornò a essere seria. «Non è entrato nessuno, è stata Drina». A quel punto Leo si ammutolì. Fu allora che la zia gli svelò la storia della piccola nomade che aveva vissuto nelle rovine del collegio. Drina era la gitana di appena sette anni che correva come una gattina vivace da una stanza all’altra, da un piano all’altro, dell’enorme edificio diroccato. Era solo una bambina che saltava sugli sbuffi del vento, sui fasci di luce del sole all’alba, agitando col vigore dell’innocenza un nastro colorato. Drina, la zingarella dagli occhi scuri, svelti, immediati come lo scatto di una fotografia che, in un pomeriggio d’inverno, finì ingoiata nel buio di uno scantinato. Un colpo secco, sordo, sul pavimento logoro e spoglio, cumulo di travi ammuffite, statue rotte e mosaici sacri. La piccola saltò giù, per l’ultima volta, nel- l’oscurità dei sotterranei, dove perfino il ronzio delle mosche si faceva muto. La stanza di colpo si riempì di dolore e una strana sensazione di freddo pervase Leo che, con un movimento istintivo, si rannicchiò sul divano, con entrambe le mani strette nelle ginocchia, in attesa di una carezza da parte di sua zia. «Per recuperare il corpicino, suo padre si fece calare con una corda. E quando riuscì a portarla fuori da quell’abisso spettrale pianse tre giorni di seguito». «E la mamma? Ce l’aveva la mamma?» domandò lui senza darle il tempo di terminare la frase. «Sì! Certo, che ce l’aveva. Una donna impaurita che, dal momento della disgrazia, ha vissuto con il cuore tagliato a metà e altri quattro figli da badare». Ad ascoltare la storia di Drina, Leo si emozionò. L’urlo della piccola gitana nel labirinto dell’ex collegio gli era rimasto dentro. «So quello che provi. Anch’io ho pianto tanto la sua scomparsa. Poi un giorno è venuta a tranquillizzarmi». «Venuta dove? Che significa?». «Qui! Esattamente qui» rispose la zia indicando con lo sguardo lo spazio intorno a loro. Seguitò a raccontare di quando aveva da poco acquistato la casa e di una notte che si era svegliata di soprassalto per aver sentito strani rumori provenienti dalla sala pranzo. La voce sommessa della piccola era accompagnata da una melodia che portava lontano, fino a disperdersi nelle fenditure imperfette del tempo, al momento della tragedia. Tra l’an- goscia e la determinazione la donna si fece coraggio e avanzò, fino a scorgere ogni segno possibile della sua presenza: la finestra spalancata, i fogli sparsi sul pavimento, il lampadario in movimento e l’antico lume inspiegabilmente acceso. Fu da quel momento che la zia iniziò ad appassionarsi alla musica gitana andalusa e a stabilire un contatto co- stante con Siviglia, dove incontrava regolarmente i parenti di Drina. E così, ogni notte, al chiarore della lampada accesa, la piccola gitana tornava ad assaporare le corse forsennate nel collegio e a comunicare con l’amica attrice.

«Allora nun se lo semo ‘nventati!» disse Leo con aria sbalordita. «È tutto reale» ribadì lei passandogli una mano sulla testa. «La vedi quella parete? Non c’è notte nella quale Drina non l’oltrepassi per tornare a correre, a fondersi con lo sbuffo fresco del vento, a danzare i suoni della sua terra, a cercare la luce che le mancava».

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