di Lina Furfaro

Uno stralcio del romanzo che sta per uscire.

“…«Allora, chi non ha avuto le caramelle? Venite!»

«Fatevi avanti!»

E mentre i fanciulli ingurgitavano le pasticche zuccherate, il coro si elevava leggero:

Se abiti all’Agro Romano, a Marino…

prendi il chinino

da giugno a ottobre

non contrai la febbre:

pure a Ciampino

due confetti se adulto

uno se bambino.

Il dottor Luigi era fiducioso. Presto il grande male sarebbe stato debellato, serviva ancora un ulteriore sforzo. Ci credeva, sapeva che la campagna in cui si trovava era ben vista dall’ambiente cattolico e ciò sarebbe servito ad assicurare ai suoi abitanti un futuro migliore. Sul tratturo che stava attraversando, folti canneti si affacciavano da entrambi i lati. Erano i campi della vasta proprietà che un tempo era appartenuta ai Ciampini, precisamente a quel dotto di Giovanni Giustino.

Sapeva che la storia del luogo in cui viveva era intrecciata inevitabilmente con quel personaggio vissuto a metà del XVII secolo. Da quelle parti, tutti lo ricordavano come un uomo sapiente, dedito alla letteratura, alla storia e al diritto. Una passione che lo prese sin da bambino, quando il fratello maggiore Pietro divenne il suo tutore alla morte dei genitori. E crescendo nulla riuscì a distoglierlo dalle sue lettere, neanche l’idea di prendere moglie, così Pietro riuscì a farlo entrare nella Curia romana, facendolo diventare segretario del cardinale Barberini. Negli anni, non solo si dedicò ai trattati, ai discorsi accademici, alle riviste letterarie, ma anche all’archeologia e alle scienze matematiche, tanto da diventare uno scienziato di fama, un precursore del Secolo dei lumi, sostenuto economicamente addirittura da Cristina di Svezia. Tale smania, però, gli costò cara: trovò la morte (nel 1698) proprio mentre tentava di estrarre la polvere di Algarotti, intossicato dai vapori del mercurio. Ma nella sua lunga vita si distinse per fede, pietà e giustizia. E fu grazie alle sue influenze che dall’Abazia di San Nilo ottenne il possesso di quella che fu poi rinominata in suo onore Villa Ciampina, in seguito luogo dove si tenne la fastosa celebrazione delle nozze del fratello minore Domenico – al quale poi la donò – con grande partecipazione di parenti e illustri personalità, oltre che di una compagnia di soldati a cavallo della vicina Frascati. Le proprietà che ricadevano intorno al casale erano davvero vaste, arrivavano fino all’antica carrozzabile e alla Mola Cavona, intorno al centro di Marino, feudo esclusivo da secoli della famiglia Colonna.

Il dottor Luigi alzò il colletto del folto cappotto, il vento s’insinuava facendo sentire brividi di freddo in ogni piccola parte del corpo. Il cielo non prometteva nulla di buono, nuvoloni neri stavano scaricando pioggia da qualche parte sui monti. Diede un altro colpo al cavallo nella speranza che incalzasse il passo, dovevano fare presto anche in previsione del ritorno.

Nel frattempo, però, torcendosi con le dita i lunghi baffi scuri, continuava a riflettere sul passato di quel lembo di terra laziale che quotidianamente attraversava in lungo e in largo per portare cure e a volte qualche sorriso ai malati che lo interpellavano. Quella capricciosa e buffa scelta toponomastica, Ciampino – che nel 1859 venne impressa nero su bianco per la prima volta su quel cartello, lungo la linea ferrata Roma-Frascati, che ne indicava la stazione – secondo qualcuno, era attribuibile ai signori anglofrancesi della Pio-Latina. Invece, lui ne era convinto: l’onorabile cognome di Giustino Ciampini era stato associato a tutto quel territorio circostante, così vasto e intenso, proseguendo finanche alla piana malarica.

Parte di quella grande tenuta era stata rilevata dal fattore Angelo Capri, che approfittò subito di quel florido periodo: la stazione ferroviaria infatti aveva portato ricchezza a quei campi, fino ad allora sconosciuti e irraggiungibili, allargandone confini e affari.

Allentò le redini, doveva attraversare il ponticello: al di là, la casa. Davanti all’ingresso, scese dal cavallo e lo legò al gancio apposito al muretto bianco che delimitava la casa. Lo sguardo gli cadde sul pergolato che era lì accanto. D’estate sarebbe stato lussureggiante e avrebbe fatto una gradevole ombra sul porticato.

Raggiunse l’uscio e bussò. Aprì un uomo palesemente angosciato, che, appena lo vide, ebbe un luccichio negli occhi. In cuor suo, sperò di poter dare una risposta concreta a quella piccola traccia di speranza e non deluderla. Si sfilò il pesante mantello di lana scuro e glielo porse, poi si fece condurre nella stanza del malato, una minuscola camera spoglia in cui si respirava un cattivo odore di sudore. Nel letto, avvolto fra le coperte, un bambino sui cinque anni, febbricitante. La pezza umida che aveva sulla fronte si dimenava seguendo i movimenti angosciati del suo corpo esile e smunto. Accanto a lui, accasciata su una sedia, la madre. Lei, appena vide apparire la figura del dottore sulla porta, scattò in piedi e gli fece spazio per farlo avvicinare al capezzale, sapeva che era l’unico in quel momento in grado di salvare la vita al suo bambino. Se il cielo avesse voluto.

Lo visitò per quello che era possibile fare, auscultò i polmoni e misurò la febbre. La situazione era chiaramente disperata. Non proferì parola e si voltò per andarsene. Sull’uscio si rivolse al padre e gli indicò i farmaci da prendere. Si rimise il pastrano e salì sul suo cavallo per poi allontanarsi lungo il tratturo. …”

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